domenica 22 dicembre 2013

Ray "Gta" Donovan e la danza di Jon Voight

Giorni di Natale in arrivo e qualche chances di recuperare un po' di serie dell'autunno Usa che vi siete persi. La prima da godersi è certamente Ray Donovan, regalo della Showtime, che mentre si beccava le maledizioni di tutti per l'ultima, deludente stagione di Dexter, se ne esce con un nuovo personaggio azzeccatissimo.
Ray, interpretato da Liev Schreiber, finora visto in un paio di Scream e X-Men, ma noto soprattutto per essere il marito di Naomi Watts, fa il lavoro di Wolfe in Pulp Fiction, risolve problemi. Alle star di Hollywood, ai campioni Nba, ai rapper. Ma soprattutto deve risolvere i suoi prblemi quando suo padre esce di galera dopo vent'anni: al gabbio ce l'avevano mandato proprio Ray e la sua cricca da qui i guai.
Intanto Ray si muove in una Los Angeles che sempra presa pari pari dai videogames di successo di Grand Theft Auto. I negri rappano e si muovono come se lo facessero 24 ore su 24, alcuni di loro se ne vanno in giro in pieno giorno con uan katana o girano con una macchinina da golf. Le puttane sono ovunque e lo stesso Ray quando risponde al telefono sembra il personaggio del videogame
L'idea del "risolutore" sembrava un po' abusata e infatti la sceneggiatrice Ann  Biderman lascia le vicende delle star problematiche sullo sfondo, mentre la scena è occupata tutta da Ray e dalla sua famigla problematica. Il plot funziona nonostante la fissità dello sguardo di Schreiber. La sensazione è che al provino gli abbiano chiesto di fare la faccia del duro problematico e preoccupato e lui abbia risposto: "Non c'è problema, so fare solo quella".
Il vero protagonista che funziona e incanta è Mick, il padre di Ray, insomma, Jon Voight pronto a dimostrare che nella vita può tranquillamnte permettersi di non fare solo il papà di Angelina. Voight ipnotizza con la sua camminata sempre sopra le righe, ciondolante all'ennesima potenza, forse ancora più riuscita di quella di Un uomo da marciapiede. Voight non cammina, danza, su una vita ritrovata, sul desiderio di vendetta, sulla voglia di fare il padre a dei figli che non ha chiaramente saputo crescere. Per lui è tutto semplice, puttane, coca, drink, sono perfettamente compatibili con l'idea di voler fare il nonno o di voler stare accanto a uno dei figli che si porta dietro il trauma di un abuso sessuale da un prete. Un gigante con la faccia di gomma e il cervello di un babino di sei anni. Il personaggio perfetto che regge tutta la prima stagione della serie. 

   

domenica 27 ottobre 2013

I due episodi che non potete perdere di How I met your mother

   Recuperare le serie è complicato. Recuperarne una, da 24 espisodi a stagione, che è arrivata all'ottava stagione e si chiuderà alla nona è quasi impossibile, a meno che non naufraghiate su un'isola deserta con una connessione con la fibra.
   Ma si può prendere il meglio di una serie come How I met your mother. Ecco, se non l'avete mai vista potete cominciare da due episodi per godervi un'ora di grande televisione che gira intorno al personaggio più fantasioso, a volte paradossale, e più divertente della serie, Barney. Il primo è l'ottavo episodio della quinta stagione, "The Playbook". Perchè in questo episodio conoscerete Lorenzo von Mattherhorn. Chi è? Diciamo che Barney, il playboy impenitente del cast, tra le tante idee per rimorchiare si è inventato una persona che non esiste.

   A questo punto vi avanza una mezz'ora e allora non potete perdervi il terzo episodio della settima stagione "Ducky Tie". Qui ancora Barney pur di vedere le tette di Lilly, una delle altre protagoniste, riesce a suggestionare gli amici in maniera assurda e geniale, portandoli in un ristorante giapponese dove potrà lanciarsi in una scommessa che sa già di vincere.
   Insomma, HIMYM, gira molto intorno alle trovate degli sceneggiatori sul personaggio interpretato da Neil Patrick Harris, ex ragazzo prodigio della tv americana, tornato al successo con la sit-com in cui fa il playboy, lui che nel 2004 ha fatto coming out su People raccontando la propria omosessualità. I due episodi sono assolutamente da non perdere, poi se naufragate...

domenica 15 settembre 2013

Lasciate in pace i serial killer, please

Così come è difficilissimo girare il sequel cinematografico di un grande film, è altrettanto dura portarne in tv il seguito o il prequel. La dimostrazione migliore è Bates Motel, trasmessa negli Usa da A&E TV, ma non scherza neanche Hannibal della Nbc.
    I dubbi più forti riguardano il prequel di Psyco, il film di Hitchcock che ha avuto già cinque, discutiblissimi seguiti in 35mm. Visto che sul post-doccia si era già detto tutto, cadendo spesso nel ridicolo, in tv si è deciso di puntare sulla giovinezza di Norman Bates, esplorando il suo rapporto con la madre. Impresa affascinante ma, a giudicare dai primi quattro episodi, affatto riuscita. Si parte, in un corto circuito temporale visto che la serie è ambientata ai giorni nostri,  dall'omicidio primigenio, quello di mamma Vera Farmiga che uccide il marito e padre di Norman e si prosegue con spruzzatine di psicologia da fermata d'autobus qua e là, da Edipo alla morbosa attrazione di Norman per dei disegni di violenza trovati per caso nelle stanze del Motel. A questo si aggiunge un'atmosfera che vuole goffamente ricordare le torbide atmosfere di Twin Peaks con un certo marciume che pervade tutta la città, vicesceriffo compreso.


  Il tratto distintivo di Hannibal, curiosamente anche questo film con molti sequel, ma anche con un prequel d'autore, il Manhunter di Michael Mann, è invece la lentezza. Voluta, cercata, ma ugualmente a tratti esasperante nella lunga masticazione di Lawrence Fishburne, nei gesti di Mads Mikkelsen, interprete del giovane dottor Lecter che cerca senza successo di smarcarsi dall'esempio di Anthony Hopkins. A questo si aggiungono le vicende del dottor Graham, un profiler dell'Fbi con poteri extrasensoriali che riesce a mmedisimarsi nei serial killer seguendone le tracce. Uno di quelli, insomma, del filone: risolvo tutto io perchè c'ho i poteri. Ma che, guarda caso, non ha il potere di capire chi sia veramente il dottor Lecter che addirittura lo sta psicoanalizzando. Vi sembra un po' un guazzabuglio? Lo è.

domenica 21 ottobre 2012

Ministro, mi ascolti, spenga la tv

E niente, a volte il tempismo è tutto. E se è sbagliato a si sposa a una tragedia, diventa quasi ridicolo. Succede che qualche giorno fa Faddy Abboud, il ministro libanese del turismo, ha minacciato di portare in tribunale i produttori di Homeland. Nella seconda stagione in onda negli Usa, infatti, si vede una riunione di terroristi ad Hamra Street, che viene dipinta come un covo di Hezbollah. La scena, in realta', e' stata girata a Gerusalemme e ha fatto andare su tutte le furie il ministro.
"Non e' stata ripresa a Beirut e non rappresenta la vera immagine di Beirut, infatti si vede Hamra Street pattugliata dai miliziani, mentre nella realtà è una strada di ristoranti e bar alla moda", ha tuonato l'esponente del governo, secondo cui "questi film rovinano l'immagine del Libano, siamo pronti a portare in tribunale i produttori dello show".
Peccato che un paio di giorni dopo sia esplosa proprio nella capitale un'autobomba che ha provocato otto morti, riportando il terrore in Libano. Una coincidenza, certo. Quel che è certo è che Faddy Abboud da domani non avrà più il tempo di guardare la tv, dovrà lavorare davvero per ricostruire l'immagine turistica del Libano. Un'altra volta.

martedì 12 giugno 2012

Games of Thrones e la satira della finanza

   La seconda stagione di Games Of Thrones è appena andata in archivio negli Usa e anche da noi. Della sua bellezza stilistica, del suo essere avvincente, si è detto molto. E a ragione. Ma la serie è anche altro, è lo specchio in un mondo fantasy del nostro stesso mondo. E se pur ambientato in un tempo lontano, in cui l'esplosivo si chiama altofuoco ed è preparato dai maghi, ci si può facilmente leggere una satira feroce dei giorni nostri.
   In particolare questo aspetto è stato nella seconda stagione appannaggio di Daenerys, la madre dei draghi (cosa che ci ricorda forse un po' troppo spesso). Lei finisce a Qart, una città di ricchi mercanti che sispartiscono anche il potere politico.Uno di essi, il più ricco, la accoglie, ma in realtà sta tramando contro di lei. Salvata dai suoi draghi, Daenerys si vendica e va ad aprire l'enorme camera blindata del riccone, solo per scoprire che è vuota. "Grazie per questa lezione che mi hai dato", dirà la Targaryen al finto miliardario. Una lezione che ha dovuto imparare, ad esempio, anche l'America dei mutui subprime, quella dei grattacieli panoramici, sedi di banche che avevano in realtà i forzieri pieni di carta straccia. Nell'ultimo episodio della stagione, quindi, GoT non risparmia una feroce critica del capitalismo finanziario moderno che ha innescato questa crisi.
   E chissà che lo sferzante finale non abbia a che fare con la storia personale di uno dei creatori e sceneggiatori di Games of Throne. Spulciando sul web vien fuori infatti che David Bienoff, lo sceneggiatore principale della serie, noto negli Usa come scrittore per La 25esima ora, si chiamava alla nascita David Friedman e suo padre è stato presidente di Goldman Sachs oltre ad aver ricoperto incarichi governativi in materia finanziaria. Ebbene, David che fece da ragazzo? Rinnegò il cognome del papà e decise di farsi chiamare Bienoff, il nome della madre. Che non amasse il mondo della finanza? Possibile.

sabato 5 maggio 2012

Hell on Wheels, dal selvaggio West alla Fiat di Melfi

   Qualche settimana fa ho seguito un incontro a Napoli, sulla Fiat e sui diritti dei lavoratori. Tra gli ospiti c'era anche Giovanni Barozzino, uno degli operai della fabbrica di Melfi che erano stati licenziati nel 2010 per un presunto sabotaggio.
   Barozzino su quella vicenda ha scritto anche un libro e, raccontandola, disse che quando venne licenziato con l'accusa di essere un sabotatore della fabbrica: ''Mi sentii - disse - come se una mattina qualcuno si fosse svegliato e avesse deciso chi io dovevo essere''.  Quella frase mi restò non so perchè impressa e mi è tornata alla mente qualche giormo fa, quando mi sono guardato il quinto episodio della prima stagione di Hell on Wheels. Il capo del cantiere per la costruzione della ferrovia litiga con uno degli operai negri e per dirimere la questione viene ordinato loro di sfidarsi in un match di pugilato. I due accettano, ma alcuni neri vogliono dissuadere il loro compagno dal battersi: ''Se vinci i bianchi ti massacreranno lo stesso'', gli dicono. E lui, il personaggio di Elam, interpretato dal rapper Common, gli risponde: ''Per tutta la vita qualcun altro ha deciso chi io fossi. Da ragazzo avevano deciso che ero uno schiavo. Dopo la guerra hanno deciso che ero un  operaio, questa è l'unica occasione che ho per decidere chi sono''.
   La coincidenza è la riprova della qualità di Hell on Wheels, serie che la Amc ha già annunciato di aver rinnovato per una seconda stagione dopo i dieci episodi della prima. La storia è quelal di un ex soldato sudista che dopo la fine della guerra di Secessione cerca di trovare i soldati nordisti che massacrarono sua moglie. L'uomo finisce nel cantiere della ferrovia e ne diventa il capo. La serie funziona, sia per la verosimiglianza della cornice (il fango che domina incontrastato sulla scena e sporca tutto e tutti) sia per l'obiettività con cui tratta il tema dell'invasione da parte dei bianchi, del loro ''inferno su ruote'', ma anche della loro religione, nel territorio degli indiani. 
   E alla fine gli si perdona pure il protagonista, un tizio belloccio che si chiama Anson Mount e che sembra aver mandato a memoria gli spaghetti western di Leone, quelli in cui Clint Eastwood, di cui Anson non ha però lo spessore, aveva solo due espressioni: una col sigaro e una senza sigaro. 


mercoledì 2 maggio 2012

Homeland e quel dazio alla serialità *

*Paacs (post ad alto contenuto di spoiler)

   La serialità ti offre la possiblità di vedere gli sviluppi di una storia che ti appassiona. Ma ti costringe spesso a scendere a patti con la necessità degli sceneggiatori di allungare, stiracchiare le storie anche se sta scrivendo una serie di grande qualità. Anche se la suddetta serie avrebbe chiuso perfettamente il cerchio in dodici episodi. Lo testimonia la prima stagione di Homeland. La serie ci mette undici puntate per arrivare al gran finale di stagione che, è chiaro, avrebbe dovuto terminare con la morte di Brody. Ma la serie ha avuto un grande successo, ha vinto i suoi bravi premi e quindi va rinnovata per una seconda stagione. Bene, si potrebbe scommettere su un nuovo personaggio, su una storia che parta dalla prima stagione ma prenda altre strade.
   E invece no, la serialità made in Usa impone di salvare i protagonisti: credo sia nato così il finale di stagione in cui la bomba di Brody fa cilecca, come fosse un tric-trac comprato sulle bancarelle. In cui il terrorista dai capelli rossi pronto a farsi saltare in aria finisce nel cesso a rimettere insieme i fili della bomba col meccano. In cui la figlioletta riesce a telefonare al papy un nanosecondo prima che spinga il detonatore.
   Peccato, una caduta di stile riparata solo in parte dal momento di lucidità del personaggio di Claire Danes, quella sì, l'unica verosimile fino in fondo. Un dazio pagato alla serialità che Homeland dovrà scontare nella seconda stagione. E dovrà davvero stupirci per farcelo dimenticare.
   Ma se la quasi perfetta circolarità della prima stagione di Homeland è stata violentata dai nuovi contratti, la macchia è ancora più evidente in serie come Lost, in cui gli scenggiatori volevano far credere di avere un disegno ampio, che comprendesse tutte le stagioni girate. Ma questa è proprio un'altra storia...